martedì 14 settembre 2010

Somewhere di Sofia Coppola. Leone d'oro a Venezia67


Con accento delicato e intimista, Sofia Coppola racconta come il rapporto ritrovato di un uomo con la propria figlia possa generare un profondo cambiamento, trasformando una persona superficiale e autodistruttiva in un padre.
Il protagonista è Johnny Marco (Stephen Dorff), star italoamericana di Hollywood, che lontano dal set è un uomo annoiato e solo. Emblema di questa solitudine è ancora una volta (come il Lost in translation) l’albergo, in cui Marco vive, il mitico Chateau Marmont, a Los Angeles, dove morì per overdose John Belusci.
L’arrivo inaspettato della figlia undicenne Cleo (Elle Fanning) , avuta da un matrimonio finito da tempo, lo sottrae a quello spleen adolescenziale, ad una vita fatta di festini, sbronze e giri in Ferrari, per restituirgli una nuova consapevolezza di sé, attraverso la tenerezza dei gesti dell’intimità familiare.
Forte la presenza dell’elemento autobiografico nella costruzione di questo rapporto padre-figlia. Sofia Coppola ha attinto ai propri ricordi, pieni di momenti trascorsi nelle camere d’albergo per stare accanto al padre. Ed è ispirata ad un preciso episodio (il viaggio in Italia, dove il padre Francis Ford doveva ritirare un premio televisivo), la scena del film in cui Marco prende parte proprio alla serata dei Telegatti.
Le atmosfere rarefatte del film, che ‘ha incantato sin dalla prima scena’ la giuria della Mostra, presieduta da Quentin Tarantino, sono la cifra della regia di Sofia Coppola, che troviamo nel già citato Lost in translation come in Marie Antoinette. Come nelle due pellicole precedenti, la condizione che la regista e sceneggiatrice vuole descrivere è la non appartenenza, lo straniamento, la condizione della mente che si isola dal mondo. In Somewhere, tuttavia, questo distacco dalla realtà prelude ad un cambiamento, e l’hotel da emblema di solitudine diviene emblema della trasformazione, scenario ideale su cui tratteggiare i personaggi che sono ad una svolta della loro vita.

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